In questa sezione si ospiteranno eventi in grado di raccontare “lo stato delle cose”: cosa sta succedendo adesso nelle nostre città e nel più ampio orizzonte del mondo, quanta parte dell’attualità politica e culturale diventa pagina scritta e, così, storia, narrazione, racconto. Voci che giungono anche da luoghi lontani, testimonianze ed esperienze che compongono il mosaico della contemporaneità.
«È così anche nelle altre città, gente in preda a una furia distruttrice, nessun posto dove andare a rifugiarsi? Le folle di una città canadese si allargheranno sempre più fino a unirsi alle folle di qui? L’Europa è un’unica folla dalle proporzioni inverosimili? Che ore sono adesso in Europa? Le pubbliche piazze ora pullulano di gente, decine di migliaia di persone, in tutta l’Asia, in tutta l’Africa, ovunque nel mondo?».
Che cos’è una piazza? Chi sono le persone che l’animano? Di cosa parla la folla? E cosa significa farsi largo nella folla, vivere scene come quella che descrive Don De Lillo:
«Si appoggia a un muro e osserva. In altri tempi, più o meno ordinari, c’era sempre qualcuno con lo sguardo perso nel proprio cellulare, di mattina, a mezzogiorno, di sera, in mezzo al marciapiede, incurante degli altri che gli passavano velocemente accanto, completamente immerso, ipnotizzato, consumato dall’apparecchio, con gli altri che quasi gli andavano incontro per poi schivarlo all’ultimo momento; e adesso questi tossicodipendenti digitali non possono fare niente, i cellulari sono fuori uso, ogni cosa è fuori uso, completamente totalmente fuori uso».
Le voci del mondo. Ma anche il chiasso, la folla, la confusione. E se poi le voci del mondo all’improvviso smettessero di parlare, di parlarci? Se si verificasse un blackout di quella tecnologia che, del mondo, ha trasfigurato l’aspetto, traducendolo in un reticolo di segni, immagini, suoni digitalizzati? Se da ascoltare non restasse ormai nient’altro che il suo silenzio? E da guardare solo più uno schermo nero?
Don DeLillo, Il silenzio
In questa sezione saranno collocati gli eventi che raccontano il rapporto dell’uomo con la natura, con gli animali, con la vita vivente, con il linguaggio, libri e ospiti che parleranno di sostenibilità ambientale e antropocene, ma anche di lingue storico- naturali, di spazi più vasti del mondo abitato, della terra vista dallo spazio, del micro e del macrocosmo esplorati dalle scienze della natura.
«Qualcosa nel profumo dell’aria suona come un ordine per la donna: Chiudi gli occhi e pensa a un salice. Il pianto che vedi sarà un’imitazione imprecisa di quello vero. Immagina la spina di un’acacia. Non riuscirai a figurarti niente di abbastanza acuminato. Cos’è che è sospeso sopra di te? Cos’è che fluttua sulla tua testa proprio ora – Ora?».
È possibile inscrivere la storia degli uomini nella vita delle piante, come fosse sovraimpressa, ad esempio, agli anelli che raccontano il tempo lontanissimo di un albero? La ripresa di un dialogo con ciò che chiamiamo “natura” passa attraverso la capacità di prestare ascolto alla primigenia e ostinata resistenza degli altri esseri viventi. Se solo ci provassimo, potremmo coglierne il sussurro nell’intimità delle esistenze individuali così come nella scena della storia collettiva, nell’arte e nel sapere della scienza, tra le vertigini del pensiero, nella materia incandescente del desiderio.
«È questo il guaio con le persone, il problema delle loro radici. La vita scorre di fianco a loro, invisibile. Proprio lì, proprio accanto. Creando il terreno. Il ciclo dell’acqua. Negoziando sostanze nutrienti. Formando il clima. Costruendo l’atmosfera. Nutrendo e curando e riparando più specie di creature di quante le persone riescano a contare. Un coro di legno vivente intona alla donna: Se la tua mente fosse una cosa un po’ più verde, ti sommergeremmo di significato. Il pino a cui è appoggiata dice: Ascolta. C’è una cosa che devi sentire».
Sulla nostra testa, proprio ora, campeggia il riconoscimento di una condizione – la nostra – a cui è sottratto ogni privilegio, ogni pretesa di disporre dell’incessante incedere del mondo. Richard Powers lo scandisce con tono irrevocabile:
«Ricordi? Le persone non sono la superspecie che credono di essere. Altre creature – più grandi, più piccole, più lente, più veloci, più vecchie, più giovani, più potenti – sono quelle che decidono, creano l’aria, e si nutrono della luce del sole. Senza di loro, nulla».
Richard Powers, Il sussurro del mondo
Il viaggio, l’ospitalità, l’avventura, l’incontro (o lo scontro) con l’altro, chi entra nelle nostre vite e chi ci lascia, l’amore che viene e l’amore che va, ma anche il miracolo della nascita e il mistero della morte, chi viene al mondo e chi va via: in questa sezione troveranno spazio i grandi temi della vita umana, a cui attingono da sempre la filosofia, la letteratura, le arti.
«Quando alcuni giorni dopo mi misi a scartabellare tra le fotografie e le cartoline di auguri, di scritto non trovai quasi niente. C’erano pile di biancheria invernale e mutandoni, giacche e gonne belle e nuove, pronte per le grandi occasioni e perciò mai indossate e ancora tutte odorose di negozio sovietico. C’era una camicia da uomo ricamata di prima della guerra, e piccole spille in avorio, traforate, da ragazza: una rosa, un’altra rosa, una cicogna; appartenevano alla mamma di Galja, mia nonna Dora, nessuno le portava più ormai da una quarantina d’anni. Tra tutto questo esisteva un nesso certo e diretto, e tutto questo aveva senso e significato solo se preso come un blocco unico, nella cornice comune della vita che scorre, mentre adesso si stava polverizzando sotto gli occhi».
È forse possibile ricomporre il passato anche riflettendo sulla memoria straniante di volti, immagini, oggetti lasciati o dimenticati da altri prima di noi, sorprendendo in queste enigmatiche epifanie del quotidiano una verità rintanata nei dettagli, magari – come in una fotografia perduta e ritrovata – proprio quando è lasciata fuori quadro, fuori fuoco. Oppure polverizzata, scomposta in pezzi divenuti insignificanti e però disponibili – come accade nelle pagine di Marija Stepanova – a far da traccia per altri racconti, altre narrazioni.
«In un libro sulla struttura del cervello ho letto che per riconoscere un volto in un volto umano, per identificarlo come volto, non è tanto necessario l’insieme dei lineamenti, quanto l’ovale. Senza ovale non c’è verso di venirne a capo: l’ovale circoscrive la nostra storia, è ciò che la raccoglie in un unicum intellegibile. L’ovale può essere la vita stessa finché scorre; oppure, già postmortem, la linea che collega il racconto di ciò che è stato».
Per chi resta, narrare l’incontro con le vite passate significa anche ritagliare con le parole i contorni di figure che si scoprono al contempo familiari ed estranee, e danno luogo all’inatteso. Afferrarne i segni tra le pieghe di biografie apparentemente ordinarie, che hanno scandito il loro passo accanto ai tornanti della storia, intuendone i drammi, gli abissi, le rinascite.
Marija Stepanova, Memoria della memoria
L’ascolto è essenzialmente un modo di prestarsi e di rendersi disponibili, di capire e di ospitare. Nelle pieghe di un saggio o nella trama di un romanzo diviene sperimentazione di esistenze possibili, e così, il più grande esercizio di accoglienza delle emozioni e dei pensieri dell’altro. Di un’altra vita, di un’altra cultura o di un’altra storia, prossima o lontana che sia.
«Quello che era entrato somigliava in maniera inverosimile a me. Dunque, io ero là! Così mi era venuto da pensare in quell'attimo. Come se qualcuno, volendo prendersi gioco di me, mi introducesse di nuovo attraverso la porta opposta a quella dalla quale ero entrato e dicesse: “Guarda, tu in fondo così dovevi essere, così dovevi entrare, così dovevi muovere mani e braccia, così dovevi osservare l'altro te stesso seduto nella stanza!” Nel mentre che i nostri occhi s'incontrarono, ci salutammo. Lui però, non pareva sorpreso. Decisi allora che non mi somigliava poi tanto: aveva la barba, lui; d'altra parte, si sarebbe detto, io avevo dimenticato a che cosa somigliasse il mio viso. Mentre quello sedeva di fronte a me, mi ricordai che da un anno non mi guardavo allo specchio».
L’altro e l’altrove, lo sguardo dell’altro che incrocia il nostro e ne scompiglia i piani. Fra gli intrecci della scrittura le nostre vite si perdono e si ritrovano trasmutate, ospitando altre vite. Come accade nel racconto di Pamuk, ecco che finiamo per accorgerci d’esser diventati un altro. Quell’altro che mai avremmo sospettato d’essere.
L’altro può insieme significare un'altra cultura e un altro luogo, un’altra città. Anche nella malinconia che impregna di sé gli abitanti e i quartieri di Istanbul – sospesa fra due mondi – tra i detriti e i bagliori di un impero disfatto, potrà capitarci, d’un tratto, di avvistare noi stessi, l’altro, gli altri, il prisma infinito del mondo.
«… è vero che la vita delle generazioni passate della città in cui vivo, cioè il diario della vita di Istanbul, è stata raccontata dagli stranieri. Forse per questo talvolta leggo ciò che hanno scritto i viaggiatori occidentali non come il sogno esotico di un'altra persona, bensì come se fossero i miei ricordi. […]
Guardare Istanbul come se fossi uno straniero è per me un'abitudine piacevole e necessaria soprattutto contro il senso di comunità e il nazionalismo. […]
Mi conforto pensando che osservarla da tanti punti di vista differenti tiene vivace il mio rapporto con la città. Talvolta mi dico che il fatto di non aver viaggiato, di non essere mai andato a cercare neppure quell'altro Orhan che mi aspettava pazientemente in qualche zona di Istanbul, potrebbe paralizzarmi la mente: appartenere in modo così intimo a una città arriverebbe a uccidere il mio desiderio di contemplarla. Allora mi consolo con il pensiero che nel mio sguardo verso Istanbul ci sia una forma di estraneità ottenuta leggendo i libri dei viaggiatori occidentali. Qualche volta, ciò che leggo in un'opera di un osservatore occidentale, su alcuni viali principali sempre uguali e alcune vie secondarie della città, sulle sue case di legno distrutte, sui suoi venditori ambulanti, sui suoi terreni deserti e sulla sua tristezza, mi sembra un mio ricordo personale».
Ohran Pamuk, Il castello bianco, Istanbul
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