The events held in this section will deepen into “the state of things”: what is happening in our cities and the world’s horizon; which among the current events impact our lives and are meant to be printed for the written page, to then become part of history and storytelling.
This section will host the events that tell the story of man’s relationship with nature, with animals, with living life, and also with books. The guests involved will talk about environmental sustainability and the Anthropocene, including among the topics the larger spaces of the inhabited world, the earth seen from space, and the micro- and macrocosm explored by the natural sciences.
Travel, hospitality, adventure, meeting (or clashing) with the other, who falls into our lives and who leaves us; love that comes and love that goes, but also the miracle of birth and the mystery of death, who comes into the world and who goes away. In this section the most interesting topics about human life will be deeply explored and prompt greater depth in a discussion from which philosophy, literature, and arts have always drawn on.
«Quando alcuni giorni dopo mi misi a scartabellare tra le fotografie e le cartoline di auguri, di scritto non trovai quasi niente. C’erano pile di biancheria invernale e mutandoni, giacche e gonne belle e nuove, pronte per le grandi occasioni e perciò mai indossate e ancora tutte odorose di negozio sovietico. C’era una camicia da uomo ricamata di prima della guerra, e piccole spille in avorio, traforate, da ragazza: una rosa, un’altra rosa, una cicogna; appartenevano alla mamma di Galja, mia nonna Dora, nessuno le portava più ormai da una quarantina d’anni. Tra tutto questo esisteva un nesso certo e diretto, e tutto questo aveva senso e significato solo se preso come un blocco unico, nella cornice comune della vita che scorre, mentre adesso si stava polverizzando sotto gli occhi».
È forse possibile ricomporre il passato anche riflettendo sulla memoria straniante di volti, immagini, oggetti lasciati o dimenticati da altri prima di noi, sorprendendo in queste enigmatiche epifanie del quotidiano una verità rintanata nei dettagli, magari – come in una fotografia perduta e ritrovata – proprio quando è lasciata fuori quadro, fuori fuoco. Oppure polverizzata, scomposta in pezzi divenuti insignificanti e però disponibili – come accade nelle pagine di Marija Stepanova – a far da traccia per altri racconti, altre narrazioni.
«In un libro sulla struttura del cervello ho letto che per riconoscere un volto in un volto umano, per identificarlo come volto, non è tanto necessario l’insieme dei lineamenti, quanto l’ovale. Senza ovale non c’è verso di venirne a capo: l’ovale circoscrive la nostra storia, è ciò che la raccoglie in un unicum intellegibile. L’ovale può essere la vita stessa finché scorre; oppure, già postmortem, la linea che collega il racconto di ciò che è stato».
Per chi resta, narrare l’incontro con le vite passate significa anche ritagliare con le parole i contorni di figure che si scoprono al contempo familiari ed estranee, e danno luogo all’inatteso. Afferrarne i segni tra le pieghe di biografie apparentemente ordinarie, che hanno scandito il loro passo accanto ai tornanti della storia, intuendone i drammi, gli abissi, le rinascite.
Marija Stepanova, Memoria della memoria
Listening is essentially a way of being available with someone, of understanding and hosting someone. Through the pages of an essay or in the plot of a novel, listening allows one to experience other lives, and thus to welcome the emotions and thoughts of the other. Of another life, another culture, or another history, whether near or far.
«Quello che era entrato somigliava in maniera inverosimile a me. Dunque, io ero là! Così mi era venuto da pensare in quell'attimo. Come se qualcuno, volendo prendersi gioco di me, mi introducesse di nuovo attraverso la porta opposta a quella dalla quale ero entrato e dicesse: “Guarda, tu in fondo così dovevi essere, così dovevi entrare, così dovevi muovere mani e braccia, così dovevi osservare l'altro te stesso seduto nella stanza!” Nel mentre che i nostri occhi s'incontrarono, ci salutammo. Lui però, non pareva sorpreso. Decisi allora che non mi somigliava poi tanto: aveva la barba, lui; d'altra parte, si sarebbe detto, io avevo dimenticato a che cosa somigliasse il mio viso. Mentre quello sedeva di fronte a me, mi ricordai che da un anno non mi guardavo allo specchio».
L’altro e l’altrove, lo sguardo dell’altro che incrocia il nostro e ne scompiglia i piani. Fra gli intrecci della scrittura le nostre vite si perdono e si ritrovano trasmutate, ospitando altre vite. Come accade nel racconto di Pamuk, ecco che finiamo per accorgerci d’esser diventati un altro. Quell’altro che mai avremmo sospettato d’essere.
L’altro può insieme significare un'altra cultura e un altro luogo, un’altra città. Anche nella malinconia che impregna di sé gli abitanti e i quartieri di Istanbul – sospesa fra due mondi – tra i detriti e i bagliori di un impero disfatto, potrà capitarci, d’un tratto, di avvistare noi stessi, l’altro, gli altri, il prisma infinito del mondo.
«… è vero che la vita delle generazioni passate della città in cui vivo, cioè il diario della vita di Istanbul, è stata raccontata dagli stranieri. Forse per questo talvolta leggo ciò che hanno scritto i viaggiatori occidentali non come il sogno esotico di un'altra persona, bensì come se fossero i miei ricordi. […]
Guardare Istanbul come se fossi uno straniero è per me un'abitudine piacevole e necessaria soprattutto contro il senso di comunità e il nazionalismo. […]
Mi conforto pensando che osservarla da tanti punti di vista differenti tiene vivace il mio rapporto con la città. Talvolta mi dico che il fatto di non aver viaggiato, di non essere mai andato a cercare neppure quell'altro Orhan che mi aspettava pazientemente in qualche zona di Istanbul, potrebbe paralizzarmi la mente: appartenere in modo così intimo a una città arriverebbe a uccidere il mio desiderio di contemplarla. Allora mi consolo con il pensiero che nel mio sguardo verso Istanbul ci sia una forma di estraneità ottenuta leggendo i libri dei viaggiatori occidentali. Qualche volta, ciò che leggo in un'opera di un osservatore occidentale, su alcuni viali principali sempre uguali e alcune vie secondarie della città, sulle sue case di legno distrutte, sui suoi venditori ambulanti, sui suoi terreni deserti e sulla sua tristezza, mi sembra un mio ricordo personale».
Ohran Pamuk, Il castello bianco, Istanbul
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